lunedì 18 novembre 2013

TRADUZIONE LIBRO I

Lucio Anneo Seneca

De Beneficiis
Libro I
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[1.1.1] Tra molti e vari errori di coloro che vivono in maniera sconsiderata e con leggerezza, carissimo Liberale, direi che quasi nulla è più indegno del fatto che non sappiamo dare e ricevere benefici. Ne consegue pertanto che si è cattivi debitori di ciò che viene donato male; ci lamentiamo troppo tardi dei benefici non restituiti: infatti, nello stesso momento in cui li abbiamo donati erano già perduti. E non c’è da stupirsi che tra i molti e più grandi vizi nessuno sia più diffuso dell’ingratitudine. [1.1.2] Mi rendo conto che tutto questo avviene per diversi motivi: primo fra questi è che noi non sappiamo scegliere le persone degne alle quali concedere i nostri benefici. Quando invece stiamo per fare un prestito, indaghiamo scrupolosamente sul patrimonio e sulla vita del debitore, e poi non spargiamo i semi in un terreno stremato e sterile. Al contrario, i benefici, più che donarli, li gettiamo via senza alcun discernimento. [1.1.3] Non è semplice dire cosa sia più ignobile fra il negare un beneficio o richiederlo in cambio; esso infatti è quel genere di credito dal quale bisogna recuperare tanto quanto viene restituito spontaneamente. Il dichiarare bancarotta, poi, è veramente una cosa vergognosissima proprio per questo motivo, perché per estinguere il nostro debito non sono necessarie le ricchezze, bensì l’animo; infatti a rendere il dono è chi si sente in debito. Ma, considerando che sono colpevoli anche quelle persone che non dimostrano di essere grate nemmeno ammettendolo a parole, in fondo siamo colpevoli pure noi. [1.1.4] Abbiamo a che fare con molti ingrati, molti di più sono quelli che rendiamo ingrati noi stessi, poiché delle volte siamo pesanti nel rinfacciare e nel riscuotere, altre volte siamo incostanti e poco dopo ci pentiamo del nostro favore, altre volte brontoliamo e ci lamentiamo delle più piccole inezie. Distruggiamo ogni senso di gratitudine, non tanto dopo aver concesso il beneficio, ma proprio mentre lo concediamo. [1.1.5] A chi di noi è bastato essere pregato con tatto o anche solo una volta? Chi, sospettando che gli si stesse per chiedere qualcosa, non ha aggrottato la fronte, deviato lo sguardo, finto un impegno, tolto all’interlocutore, attraverso lunghi discorsi fatti apposta per non avere fine, l’occasione di chiedere ed evitato con varie tattiche i bisogni impellenti? [1.1.6] Chi poi, messo alle strette, o ha differito, ovvero ha negato timidamente, o ha promesso, ma con difficoltà, alzando le sopracciglia o con parole malevole e pronunciate a stento? [1.1.7] Nessuno, d’altra parte, si sente volentieri in debito di ciò che non ha ricevuto ma ha strappato dalle mani. Una persona può essere grata nei confronti di colui che ha gettato via il beneficio con un atto di superbia o l'ha schiaffato in faccia o l'ha dato, dopo essersi stancato, per liberarsi dal fastidio? Sbaglia colui che spera che gli renderà il contraccambio la persona che ha stancato con il differimento e ha torturato con l'attesa. [1.1.8] Ci si sente debitori di un beneficio con lo stesso animo con cui viene dato, e per questa ragione non bisogna elargire benefici in modo superficiale; infatti ciascuno deve a se stesso ciò che ha ricevuto da chi non sa donare. Certamente non bisogna attardarsi a dare; infatti, dato che in ogni tipo di servizio offerto è molto apprezzata la volontà di colui che dà, chi ha agito tardi, a lungo non ha voluto agire. In ogni caso non bisogna dare in maniera offensiva; infatti dal momento che la natura ha preparato le cose in modo tale che le offese penetrano in noi più in profondità dei meriti e che, mentre questi ultimi defluiscono velocemente, quelle vengono custodite da una memoria tenace, che cosa si aspetta chi, mentre benefica, offende? Si è abbastanza grati nei suoi riguardi se si perdona il suo beneficio. [1.1.9] Al contrario, a renderci più lenti nel fare del bene, non deve essere la gran quantità di ingrati. Come ho già detto, infatti, siamo innanzitutto noi stessi ad incrementarne il numero; e poi nemmeno gli dei immortali sono dissuasi dalla loro generosità tanto traboccante e incessante a causa dell’esistenza di uomini sacrileghi o negligenti nei loro confronti. Si avvalgono della loro natura divina e giovano a tutti gli esseri e, fra questi, anche a quelli che mal riconoscono i loro favori. Seguiamo questi, quindi, come guida, almeno per quel tanto che è permesso alla debolezza umana: diamo i benefici, non pratichiamone l’usura. Si merita di essere ingannato colui che, nell’atto stesso di dare, pensava gia al contraccambio. Ma ammettiamo pure che le cose vadano male. [1.1.10] Sia i figli che le mogli hanno deluso le nostre aspettative, tuttavia continuiamo ad educare la prole e a contrarre matrimoni, e siamo ostinati nell’affrontare le nostre esperienze a tal punto che continuiamo a combattere pur essendo stati vinti e a navigare pur avendo fatto esperienza dei naufragi. Quanto più sarebbe conveniente perseverare nell’elargire benefici! Se qualcuno poi non li dà perché non ha ricevuto il contraccambio, allora a suo tempo ha dato con il fine di ricevere, e rende difendibile la causa degli ingrati, per i quali è motivo di vergogna non ricambiare un beneficio, quando invece avrebbero possibilità di farlo. [1.1.11] Quanti sono indegni della luce stessa! Eppure il sole continua a sorgere. Quanti si interrogano sul perché siano nati! Eppure la natura continua a generare una nuova discendenza e a lasciar vivere coloro i quali avrebbero preferito non essere nati. [1.1.12] Questa è una particolarità dell’animo grande e buono: non perseguire il frutto dei benefici, bensì i benefici stessi, e cercare il bene anche dopo avere fatto esperienza di persone immorali. Cosa ci sarebbe di nobile nell’aiutare tante persone se nessuna di esse ci deludesse? Dunque è virtù concedere benefici senza la certezza che vengano contraccambiati in futuro e di cui l’uomo di valore raccoglie immediatamente il frutto. [1.1.13] Pertanto ciò non ci deve mettere in fuga e renderci più pigri nei confronti di una cosa bellissima, al punto che, se mi viene recisa la speranza di trovare un uomo grato, preferirei non ricevere benefici che non darli poiché chi non dà precede il vizio dell'ingrato. Ti dirò quello che penso: chi non restituisce il beneficio pecca di più, chi non lo dà pecca prima.

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[1.2.1] Se hai deciso di elargire benefici alla gente, molti
              ne devi perdere, per piazzarne bene uno almeno una volta.

Nel primo verso puoi rimproverare entrambi i difetti; infatti, i benefici non devono essere dispersi a destra e a manca, e di nessuna cosa, meno che mai dei benefici, può essere onorevole l’elargizione. Se ai benefici togli la capacità di esercitare il giudizio, essi cessano di essere tali e si dovranno catalogare sotto un’altra etichetta. [1.2.2] L’idea che segue è straordinaria: che un solo beneficio, collocato bene, ripara i danni dei molti perduti. Fai attenzione, ti prego, che non sia cosa più vera e più adatta alla magnanimità del benefattore il fatto che noi lo esortiamo a dare benefici anche se non ne collocherà nessuno bene. Infatti, dire che “molti benefici si devono perdere” è falso; nessuno se ne perde, perché chi perde, prima aveva fatto un calcolo. [1.2.3] La logica dei benefici è semplice: si eroga soltanto; se restituirà qualcosa è un guadagno, se non restituirà non è una perdita. Ho dato quel beneficio al fine di darlo. Nessuno segna i suoi benefici nel registro dei prestiti, né come un avaro esattore li reclama nell’ora e nel giorno convenuti. L’uomo per bene non pensa mai ad essi, a meno che non glieli faccia ricordare la persona che glieli restituisce; diversamente, i benefici passerebbero nella forma del credito. È un’usura vergognosa mettere nel conto un beneficio. [1.2.4] Comunque sia andata con i benefici che abbiamo dato in precedenza, persevera nel conferirne altri ad altre persone; essi giaceranno meglio presso gli ingrati che o il pudore o l’occasione o l’imitazione un giorno o l’altro potranno rendere grati. Non fermarti, porta avanti la tua opera e immedesimati nella parte dell’uomo buono. Aiuta una persona con un dono materiale, un’altra con la tua fiducia, un’altra con un favore, un’altra con un consiglio, un’altra con insegnamenti vantaggiosi. [1.2.5] Anche le belve hanno percezione del dovere, e non c’è nessun essere vivente tanto feroce da non essere ammansito dalla cura e da non essere da essa mutato fino a sentire l’amore nei suoi confronti. Le bocche dei leoni sono maneggiate senza paura dai domatori, con il cibo è possibile ingraziarsi la ferocia degli elefanti fino a farli diventare servili ed obbedienti. Fino a tal punto l’assiduità di un beneficio pertinace riesce ad avere la meglio su quegli esseri che sono stati posti al di fuori dell’intelletto e della capacità di comprendere il beneficio. È ingrato nei confronti di un solo beneficio? Non sarà ingrato nei confronti del secondo. Si è dimenticato di due benefici? Un terzo beneficio gli farà tornare alla mente quelli di cui si è dimenticato.

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[1.3.1] Perderà i benefici colui che crede di averli perduti troppo presto; Ma colui che insiste e accumula altri benefici su quelli precedenti, riesce a tirare fuori la riconoscenza da un cuore duro e ingrato. Di fronte ai molti benefici ricevuti non oserà sollevare gli occhi al cielo; ovunque si giri fuggendo la propria memoria, ti veda lì: circondalo con i tuoi benefici. [1.3.2] Dei quali benefici ti dirò quali siano la forza e le proprietà se prima mi avrai permesso di trattare rapidamente quegli argomenti che non sono pertinenti all’oggetto del discorso, ovvero per quale motivo le Grazie siano tre, per quale motivo siano sorelle, per quale motivo intreccino le loro mani, per quale motivo sorridano e siano giovani, per quale motivo siano vergini e per quale motivo abbiano delle vesti sciolte e trasparenti. [1.3.3] Alcuni da parte loro vogliono che sembri che ce ne sia una che dà, l'altra che riceve, la terza che restituisce; altri vogliono che esistano tre generi di benefattori: quelli che danno per primi i benefici, coloro che li restituiscono, coloro che li ricevono e che nello stesso tempo li contraccambiano. [1.3.4] Ma giudica tu quale tra queste due ipotesi sia la più veritiera; a cosa giova questa conoscenza? Perché esse, tenendosi per mano, danzano in cerchio? Proprio per questo, perché la sequenza dei benefici passando di mano in mano comunque torna indietro a colui che per primo ha donato e perde la sua integrità se per caso viene interrotta, mentre è bellissima se resiste e conserva il suo continuo avvicendamento. In questa danza tuttavia la maggiore delle Grazie gode di particolare rilievo, proprio come colui che dà per primo. [1.3.5] I volti sono felici, come sono soliti essere quelli di coloro che danno o ricevono benefici. Sono giovani, perché la memoria dei benefici non deve invecchiare; vergini, perché sono incorrotte, pure e sacre per tutti; in esse non è decoroso che ci sia alcunché di trattenuto né di vincolato; pertanto posseggono tuniche sciolte e per giunta trasparenti perché i benefici vogliono essere osservati da tutti. [1.3.6] Supponiamo anche che ci sia qualcuno tanto assoggettato ai Greci da ritenere queste cose necessarie, tuttavia non vi sarà nessuno che giudichi pertinenti alla materia trattata i nomi che Esiodo ha dato alle Grazie. Egli chiamò Aglaia la più grande, Eufrosine la seconda e Talia la terza. Ciascuno muta a proprio piacimento l’interpretazione di questi nomi e si sforza di condurli verso una qualche logica, quando in realtà Esiodo ha dato alle sue fanciulle il nome che gli è piaciuto. [1.3.7] E così Omero cambiò nome ad una di esse; la chiamò Pasitea e la promise in matrimonio, proprio per farti sapere che quelle non sono vergini vestali. Potrei trovare un altro poeta capace di rappresentarle mentre incedono con la cintura allacciata e con vesti di lana frigia o spessa. E quindi anche Mercurio sta con loro, non perchè il linguaggio o la ragione accrescono il valore del beneficio, ma perchè così sembrò opportuno al pittore. [1.3.8] Anche Crisippo, dotato di quel sottile acume capace di penetrare le verità più profonde, che in genere parla con grande coerenza argomentativa e si limita ad utilizzare solo le parole necessarie perché il suo discorso venga compreso, riempie come uno sciocco tutto il suo libro con questa roba, così da dire davvero poche parole sull’obbligo stesso del dare, del ricevere e del ricambiare i benefici; e non intreccia leggende a queste poche parole, ma al contrario intreccia queste poche parole alle leggende. [1.3.9] Infatti oltre a queste cose, che Ecatone trascrive, Crisippo dice che le tre Grazie sono figlie di Giove e di Eurinome, che per età sono più giovani delle Ore, ma che sono un tantinello meglio d’aspetto e per questo sono state date come compagne a Venere. Egli ritiene anche che il nome della madre abbia una sua pertinenza: infatti sarebbe stata chiamata Eurinome poiché il distribuire benefici è tipico di chi possiede ampie e smisurate ricchezze. Come se fosse usuale dare il nome alla madre dopo averlo dato alle figlie, o come se i poeti assegnassero nomi veri! [1.3.10] Come il nomenclatore, nel quale l'audacia prende il posto della memoria - e che quindi assegna un nome a caso a tutte quelle persone delle quali non se lo ricorda -, così i poeti non credono che sia una cosa pertinente dire la verità, ma, o costretti dalla necessità, o corrotti dal senso estetico, dispongono che ognuno sia chiamato con il nome che suona a pennello per il verso. E non ritengono di commettere una frode se hanno cambiato il rango di qualcuno; il poeta successivo, infatti, imporrà a sua volta il proprio nome alle Grazie. Affinché tu comprenda che le cose vanno proprio così, ecco che Talia - ovvero quella delle tre di cui stiamo soprattutto parlando - è Charis in Esiodo, Musa in Omero.

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[1.4.1] Ma affinché non faccia io stesso quel che biasimo, metterò da parte tutte queste storie, che sono così lontane dall'oggetto in questione, al punto da non riuscire neanche a girargli attorno. Tu comunque difendimi se qualcuno mi rimprovererà per aver messo al suo posto Crisippo, un grand’uomo, per Ercole!, ma tuttavia greco, il cui acume eccessivamente sottile si smussa e si ripiega più volte su se stesso, e che , anche quando sembra conseguire un qualche risultato, punzecchia senza però traforare. E in verità di che tipo di acutezza stiamo parlando? [1.4.2] Noi dobbiamo piuttosto parlare dei benefici, e dare alla materia un ordine che conferisca totale coesione alla società umana;  si deve dare una legge alla vita, affinché non ci sembri giusta una generosità irriflessa camuffata da benevolenza, e affinché queste nostre cautele non restringano la liberalità (che non  deve né mancare né abbondare) nel momento stesso in cui la regolano. [1.4.3] Dobbiamo insegnare alle persone a dare con piacere, a ricevere con piacere e a ricambiare con piacere, e bisogna proporre loro una grande gara: quelli che si sentono in obbligo non solo devono eguagliare con le cose materiali, e con la disposizione d’animo, coloro che hanno creato l’obbligo, ma devono superarli, poiché chi deve ricambiare un beneficio non riesce mai a farlo se non ha superato il suo benefattore; si deve insegnare ai benefattori a non mettere in conto nulla e ai beneficati a non sentirsi in debito più del dovuto. [1.4.4] A questa gara onestissima, che consiste nel superare i benefici con altri benefici, Crisippo ci esorta dicendo che non bisogna mostrarsi poco grati e che bisogna guardarsi dal commettere sacrilegio e offendere delle così belle figliole, perché le Grazie sono figlie di Giove! [1.4.5] Tu piuttosto impartiscimi qualche precetto che mi permetta di diventare più benevolo e di dimostare di più la mia gratitudine nei confronti di quelle persone che mi hanno fatto del bene; insegnami come gli animi del benefattore e del beneficato possano gareggiare in modo tale che chi ha dato se ne dimentichi e chi si sente in debito ricordi per sempre. Lasciamo queste stupidaggini ai poeti, che hanno il proposito di deliziare le orecchie e di comporre dolci favolette. [1.4.6] “Ma" - tu mi dirai - "questi qui vogliono risanare la nostra indole, mantenere salda la fiducia nei rapporti umani e instillare negli animi il ricordo dei doveri”. Allora parlino seriamente e si adoperino con tutte le loro forze; a meno che tu non ritenga che con vacui discorsi mitolgici ed argomenti da bacucche si possa impedire una cosa assolutamente rovinosa: nuovi registri dei debiti per i benefici.

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[1.5.1] Ma allo stesso modo in cui passerò sopra alle cose futili, così è necessario che io spieghi quale sia la prima cosa che dobbiamo imparare, ovvero di cosa siamo in debito dopo aver accettato un beneficio. Uno infatti dice di essere in debito del denaro che ha ricevuto, un altro del consolato, un altro di un sacerdozio, un altro ancora di una provincia. [1.5.2] Queste cose tuttavia sono i segni dei meriti, non i meriti stessi. Il beneficio non può essere toccato con mano; è una cosa gestita dalla logica della coscienza. C’è molta differenza tra la materia del beneficio e il beneficio in sé; pertanto il beneficio non è l’oro, né l’argento, né qualcosa di quelle che sono ritenute del massimo valore, ma la volontà stessa del donatore. Al contrario gli stolti notano soltanto ciò che si presenta agli occhi e ciò che si consegna e si possiede, quando invece quello che di fatto ha valore, ed è prezioso, lo stimano poco. [1.5.3] Le cose che possediamo, le cose che guardiamo, le cose sulle quali si concentra la nostra bramosia, sono destinate a svanire; sia la sorte che la violenza possono strapparcele via. Il beneficio invece perdura anche dopo che è andato perduto l’oggetto per mezzo del quale è stato dato; infatti è una azione retta che nessuna forza rende vana. [1.5.4] Ho riscattato un amico dai pirati, questo stesso amico è stato catturato e rinchiuso in carcere da un nemico; questi non l’ha privato del mio beneficio, bensì del suo uso. Ad uno ho reso i figli strappati al naufragio o ad un incendio; questi stessi figli glieli ha sottratti una malattia o un’altra disgrazia fortuita; anche senza di essi permane ciò che attraverso di essi è stato dato. [1.5.5] Perciò tutte le cose che si arrogano falsamente il nome del beneficio sono strumenti attraverso i quali si manifesta la volontà amica. D’altra parte, anche in altre circostanze avviene che da un lato c’è l’aspetto esteriore della cosa, dall’altro la cosa in sé. Le onorificenze che il generale dà ai suoi soldati sono le collane, le corone murali, le corone civiche. [1.5.6] Cosa ha di prezioso la collana di per sé? E la toga pretesta? E i fasci? E il seggio e il carro trionfale? Nulla di tutto ciò rappresenta la carica in sé, bensì un segno della carica. Allo stesso modo non é beneficio quello che si manifesta agli occhi, ma impronta e indizio di beneficio.

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[1.6.1] Cos’è dunque il beneficio? È un’azione benevola che dà gioia e la riprende mentre dà, e che si è preparata ad essere ben disposta e spontanea in ciò che fa. Non importa, quindi, ciò che si fa o si dà, ma con quale spirito, poiché, appunto, il beneficio in sé non consiste in ciò che si fa o si dà, bensì nella disposizione d’animo di chi dà o fa. [1.6.2] È possibile che tu capisca che c’è una grande differenza tra queste cose dal fatto che il beneficio è in ogni caso un bene, mentre quel che è fatto o dato non è né un bene né un male. È l’animo che esalta le piccole cose, mette in luce le cose vili, toglie valore a quelle grandi e tenute in gran conto; ciò che è oggetto del nostro desiderio ha una natura neutra, né buona né cattiva; importa invece la direzione che la parte direttiva dell’anima - che dà forma alle cose - imprime alle cose stesse. [1.6.3] Il beneficio non coincide con l’oggetto che viene pagato in contanti e consegnato, così come neanche l’onore che si attribuisce agli dei risiede nelle vittime sacrificali - per quanto esse siano grasse e risplendano d'oro -, bensì nella volontà retta e pia di coloro che li venerano. Pertanto, gli uomini buoni sono devoti anche quando offrono un po' di farro o del vasellame, i malvagi, al contrario, non sfuggono all'empietà, sebbene abbiano bagnato gli altari di molto sangue.

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[1.7.1] Se i benefici consistessero nelle cose e non nella stessa volontà di beneficare, questi sarebbero tanto più grandi, quanto più grandi sono le cose che riceviamo. Tuttavia ciò è falso; infatti talvolta ci sentiamo più in dovere nei confronti di chi ha dato poco, ma con magnificenza; nei confronti di chi “ha uguagliato le ricchezze dei re con l’animo”; di chi ha donato poco ma con piacere; di chi si è dimenticato della propria povertà mentre rivolgeva la sua attenzione alla mia; di chi non ha avuto tanto la volontà di aiutare, quanto la bramosia di farlo; di chi ha ritenuto di ricevere un contraccambio nel momento stesso in cui donava il beneficio; di chi ha dato pensando che mai avrebbe ricevuto indietro; di chi ha ricevuto come se non avesse dato, di chi ha cercato e anticipato l'occasione in cui essere di aiuto. [1.7.2] Invece, come ho già detto prima, sebbene sembrino importanti nella sostanza e nell’aspetto, non generano affatto gratitudine quei benefici che sono estorti o cadono dalle mani di colui che dà; infatti risulta molto più gradito ciò che è donato spontaneamente rispetto a ciò che è elargito a piene mani. [1. 7. 3] È poco ciò che mi ha conferito, ma non ha potuto darmi di più; al contrario, quello che mi ha dato costui è tanto, ma ha esitato, ma ha differito, ma, nel momento in cui dava si è lamentato, ma ha dato con superbia e si è vantato in giro del dono fatto e non ha voluto piacere alla persona a cui dava la sua offerta; ha dato per soddisfare la sua ambizione, non me.

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[1.8.1] Dal momento che ognuno offriva a Socrate molte cose secondo le proprie possibilità, Eschine, un allievo povero, disse: "Non trovo nulla degno di te che possa darti, e solo per questo motivo mi sento povero. Quindi ti dono l'unica cosa che ho: me stesso. Gradisci questo dono, te ne prego, per quello che può valere, e considera che altri, pur offrendoti molto, hanno tenuto molto di più per se stessi. E Socrate gli rispose [1.8.2] : “Perché mai non dovrebbe essere un grande dono quello che mi hai fatto? A meno che tu non abbia poca stima di te stesso! Avrò, quindi, cura di restituirti a te stesso migliore di quando ti ho ricevuto”. Con questo dono Eschine superò l’animo di Alcibiade, che era pari alle sue ricchezze, e tutta la munificenza dei giovani ricchi.

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[1.9.1] Vedi come l’animo è capace di trovare la materia della generosità anche in mezzo alle ristrettezze! Mi pare che Eschine abbia detto: “Non hai concluso nulla, sorte, nel volermi povero. Escogiterò per quest’uomo un dono che sia degno, e poiché non posso dare dal tuo, darò dal mio”. E non c’è motivo di pensare che si sia stimato poco: fece di sé il suo prezzo. Quel giovane ingegnoso trovò il modo in cui donare Socrate a se stesso. Giova sapere non quanti e quali siano i benefici, ma la qualità della persona dalla quale ci sono stati offerti. [1.9.2] Il furbo accoglie con facilità persone dai desideri smodati e, a parole, alimenta speranze improbe, ma, nei fatti, non ha alcuna intenzione di prestare aiuto; tuttavia è ancora peggiore di Opimio se, rigido nel volto, aspro nella lingua, ha squadernato la sua fortuna generando invidia. Infatti, gli uomini venerano e detestano la persona di successo e le azioni che essa compie, ma, se potessero, anche loro si comporterebbero allo stesso modo. [1.9.3] Dopo essersi presi beffe delle mogli altrui, non di nascosto, ma apertamente, hanno messo a disposizione le proprie agli altri. Se c’è qualcuno che vieta alla propria moglie di fare bella mostra di sé dalla portantina e di farsi condurre in giro in vesti succinte, mostrando il proprio corpo agli sguardi penetranti di chiunque, viene considerato rozzo, incivile, dai cattivi costumi, e le stesse matrone lo disprezzano. [1.9.4] Sempre le matrone reputano ignobile chi non si è distinto con un'amante né mantiene economicamente le mogli altrui, e lo tacciano di essere un uomo dai miseri piaceri, capace di corteggiare solo le serve. E dunque, l'adulterio è la forma più sicura di fidanzamento, mentre il celibato e lo starsene da soli sono apprezzati da tutti, poiché nessuno prende moglie a meno che non la rubi ad un altro. [1.9.5] Ormai la gente fa a gara nel disseminare l’oggetto delle proprie rapine, ma poi, presa da una feroce e pungente avidità, si affanna a recuperare ciò che ha disseminato; non ha rispetto di nulla, disprezza la povertà degli altri, teme la sua come se fosse l’unico male; turba la pace con le offese, con la forza o con la paura opprime i più deboli. Infatti, non meraviglia che le province vengano depredate, che i tribunali vengano corrotti e che, ascoltate le offerte di entrambe le parti, si lascino comprare da una di esse, dal momento che fa parte del diritto dei popoli vendere ciò che si è acquistato.

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[1.10.1] Purtuttavia – giacché l’argomento risulta stimolante –, l’impeto ci trascina troppo lontano; e pertanto fermiamoci qui, in modo da non lasciare depositare i peccati soltanto sulla nostra epoca. Di questo si sono lamentati i nostri antenati, di questo noi stessi ci lamentiamo, di questo le persone che verranno dopo di noi si lamenteranno: dello stravolgimento dei buoni costumi, della dissolutezza imperante, del degrado della morale umana e dell’inesorabile decadimento verso ogni sorta di empietà. Questi vizi, comunque, rimangono fermi nello stesso luogo, e sempre vi rimarranno, muovendosi un po’ più in qua o un po’ più in là, proprio come le onde, che il ribollire del mare ora spinge lontano dalla riva, ora trattiene nei limiti interni dei lidi con il proprio flusso e il proprio riflusso. [1.10.2] Ora la tendenza a peccare sarà rivolta verso l’adulterio piuttosto che verso qualche altro vizio, facendo sì che si infrangano i limiti della pudicizia; ora andranno di moda la smania per la cucina e la follia dei banchetti, che portano alla rovina dei patrimoni; ora andranno di moda la cura eccessiva del corpo e la preoccupazione per la bellezza fisica, che sono effetto di una insita turpitudine dell’anima; ora una libertà male amministrata si muterà traumaticamente in impudenza e in insolenza; ora ci si indirizzerà verso la violenza privata e pubblica e verso la follia delle guerre civili, per effetto delle quali tutto ciò che è santo e sacro finisce per essere profanato; potrà anche capitare, un giorno, che l’ubriachezza diventi motivo di vanto e che il bere ingenti quantità di vino pretto venga ritenuto virtù. [1.10.3] I vizi non stanno sempre fermi nello stesso posto, ma si muovono in modo tumultuoso e cozzano l’uno con l’altro, respingendosi e mettendosi in fuga a vicenda. E del resto di noi stessi dovremo sempre ammettere pubblicamente che siamo malvagi, che siamo stati malvagi e – lo dirò a malincuore – che lo saremo sempre. [1.10.4] Ci saranno sempre gli omicidi, i tiranni, i ladri, gli adulteri, i predatori, i sacrileghi, i traditori. Al di sotto di tutti questi vizi c’è quello dell’ingratitudine, se non altro per il fatto che a causare tutti questi vizi c’è proprio l’ingratitudine stessa, senza la quale difficilmente qualsiasi altro grande delitto ha mai potuto assumere proporzioni considerevoli. E dunque tu bada a non commettere mai questo peccato, considerandolo come il più grave di tutti. Purtuttavia, perdonalo come se fosse il più lieve una volta che è stato commesso. Questo è infatti il bilancio dell’offesa che ricevi: hai perduto un beneficio. Rimane tuttavia salva la sua parte migliore: lo hai dato. [1.10.5] D’altra parte, così come dobbiamo avere cura di conferire i nostri benefici soprattutto a coloro che risponderanno con la loro gratitudine, allo stesso modo alcuni favori li faremo anche se le nostre speranze di ottenere riconoscenza saranno scarse. Inoltre, daremo i nostri doni non solo a quelle persone che giudicheremo ingrate, ma anche a quelle che sappiamo che lo sono già state in passato. Per fare un esempio, se senza correre alcun pericolo avrò la possibilità di restituire a qualcuno i suoi figli dopo averli liberati, non esiterò a farlo. Difenderò una persona degna anche a costo del mio sangue ed esponendomi al pericolo; nel caso di una persona indegna, invece, se potrò sottrarla ai predoni levando un semplice grido, non mi vergognerò di emettere una voce che possa salvarla. 

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[1.11.1] Ci rimane da dire quali benefici si debbano dare e come. In primo luogo dobbiamo donare ciò che è necessario, in secondo luogo ciò che utile, quindi ciò che è piacevole; in ogni caso dobbiamo concedere benefici destinati a permanere nel tempo. Bisogna comunque partire dai benefici necessari. Del resto – come si suol dire – un effetto sortisce il beneficio che preserva la vita, un altro effetto ancora sortisce quello che la abbellisce e la adorna. Nel caso di quest’ultima tipologia di beneficio può sempre capitare di imbattersi in una persona che valuta in maniera schizzinosa ciò che abbiamo dato, di cui potrebbe facilmente fare a meno e di cui potrebbe anche dire “prenditelo indietro, non ne ho bisogno; mi basta quello che ho”. Talvolta, poi, non solo piace rendere ciò che si è ricevuto, ma addirittura gettarlo via [1.11.2] Fra le cose che sono necessarie, alcune - ovvero quelle senza le quali non possiamo vivere - occupano la prima posizione, altre - ovvero quelle senza le quali non dobbiamo vivere - la seconda, altre - e si tratta di quelle senza le quali non vogliamo vivere - la terza. [1.11.3] Le prime rientrano in tipologie simili alle seguenti: essere strappati dalle mani dei nemici, essere salvati dall’ira del tiranno, dalle liste di proscrizione e dagli altri pericoli che, vari e incerti, minacciano la vita umana. Qualunque di questi mali avremo scongiurato, quanto più pericoloso e terribile esso sarà, tanto più grande sarà la gratitudine che avremo generato. Quello che infatti accade è che subentra subito il pensiero della gravità del pericolo scampato, e il timore che si è provato poco prima aggiunge al beneficio che si riceve subito dopo una certa attrattiva. Non per questo, però, dobbiamo salvare qualcuno più tardi rispetto a quando potremmo per far sì che la paura accresca il valore del nostro dono. [1.11.4] La classe successiva è quella di quei benefici - come ad esempio la libertà, il pudore, la rettitudine morale - senza i quali possiamo ugualmente vivere, ma in modo tale che sia meglio la morte. Dopo questa tipologia di benefici viene la classe di tutti quei beni che ci sono cari in virtù della parentela, dei vincoli di sangue, delle frequentazioni e di una certa familiarità radicatesi nel tempo: si tatta dei figli, delle mogli, dei penati e di tutte le altre cose nelle quali la nostra anima si attacca fino al punto da pensare che essere strappati ad essi sarebbe più grave della morte stessa. [1.11.5] Seguono quindi i benefici utili, il cui campo di azione è variegato ed esteso. In questa classe si collocherà la ricchezza, che non dovrà essere sovrabbondante, ma che sarà stata procacciata in modo sufficiente tanto da averne secondo una giusta misura. In questa classe ci saranno poi le onorificenze e i progressi di chi mira verso gli obiettivi più elevati (e infatti non c’è niente di più utile che risultare utili ai propri concittadini). Infine, la restante classe di benefici è quella che si genera dall’abbondanza e che a lungo andare ci rende raffinati. Nel caso di questa tipologia ci comporteremo in modo che i nostri doni risultino graditi perché dati nel momento opportuno, che non siano dozzinali, che ad averli siano in pochi (o che siano in pochi ad averli entro un certo lasso di tempo o in un certo modo), che - anche se non sono per loro natura preziosi - lo diventino a seconda della circostanza o del luogo in cui li diamo. [1.11.6] Cerchiamo di capire quale dono, una volta offerto, sarà motivo del più grande piacere, quale dono potrà spesso balzare agli occhi della persona a cui lo daremo, così che possa trovarsi in nostra compagnia ogni qual volta si troverà accanto ad esso. Ma soprattutto, faremo attenzone a non offrire doni inutili. Ad esempio, non doneremo armi da caccia ad una donna o ad un anziano, non regaleremo libri a uomini di campagna, reti gladatorie a intellettuali e letterati. Analogamente - e al contrario - baderemo bene a non offrire alle persone alle quali vogliamo risultare graditi oggetti che possano implicitamente funzionare da rimprovero per le loro magagne. E così non regaleremo vino ad una persona incline all’ubriachezza, né regaleremo medicine a chi è cagionevole di salute. Quell’oggetto che denuncia apertamente il difetto di chi lo riceve, infatti, comincia a non essere più un dono, bensì un oltraggio. 

12

[1.12.1] Se possiamo scegliere noi cosa dare, cercheremo soprattutto cose destinate a durare, in modo che il nostro dono sia quanto meno possibile soggetto a deperimento. Poche persone, infatti, sono così riconoscenti da continuare a pensare a ciò che hanno ricevuto anche quando non se lo trovano più davanti agli occhi. Anche gli ingrati sono costretti a imbattersi nel ricordo che li assale assieme all’oggetto del beneficio e che, quando balza davanti al loro sguardo, non permette loro di dimenticarsene, anzi imprime e inculca a forza nelle loro menti la figura della persona del benefattore. Proprio per questo, dunque, dobbiamo cercare oggetti destinati maggiormente a permanere, perché a richiamare alla memora i benefici che abbiamo fatto non dobbiamo essere noi: sarà lo stesso oggetto a destare un ricordo che va sbiadendo. [1.12.2] Donerò più volentieri dell’argenteria piuttosto che del denaro, delle statue piuttosto che una veste o degli oggetti che un uso breve finisce per deteriorare. Sono pochissime le persone che rimangono riconoscenti dopo che i doni che hanno ricevuto non ci sono più; di più sono quelli che non tengono a mente le cose ricevute per un tempo più lungo di quello che passano ad utilizzarle. Io, invece, se è possibile, non voglio che il mio dono si deteriori: che rimanga visibile, che stia attaccato al mio amico, che viva con lui! [1.12.3] Nessuno è tanto stolto da avere bisogno che gli si ricordi di non mandare in dono gladiatori o animali da caccia quando ormai il tempo dei giochi è passato, o di regalare vestiti estivi in inverno e vestiti invernali in estate. Vi sia, nel beneficio, un senso comune: si tenga conto delle circostanze, del contesto, della tipologia delle persone. Alcune cose, infatti, possono risultare gradite o non gradite a seconda dei momenti. Quanto è più gradita la cosa che diamo a chi non la possiede rispetto a ciò che si dà a chi ne ha già in abbondanza! Quanto è più gradita la cosa che il nostro amico cerca, senza trovarla, da tanto tempo, rispetto a quella cosa che invece potrà vedere in ogni dove! [1.12.4] Più che essere preziosi, i doni siano dunque rari e ricercati, tanto da trovare il loro posto anche presso una persona facoltosa. È questo, ad esempio, il caso di quei frutti molto comuni, di cui ci stufiamo nel giro di pochi giorni, ma che piacciono se sono arrivati in anticipo rispetto alla loro stagione. Avranno pure il loro pregio anche quelle cose che nessun altro ha dato loro o che noi stessi non abbiamo mai dato a nessun altro. 

13

[1.13.1] Quando Alessandro il Macedone, dopo avere conquistato l’Oriente, innalzava il suo animo al di sopra della condizione umana, i Corinzi si congratularono con lui per mezzo degli ambasciatori e gli fecero dono della loro cittadinanza. Poiché Alessandro era scoppiato a ridere di fronte a questo genere di offerta, uno degli ambasciatori gli disse: «A nessun altro, ad eccezione che a te e ad Ercole, abbiamo mai dato la cittadinanza». [1.13.2] Allora Alessandro accettò ben volentieri l’onorificenza non comune e, dopo aver trattato gli ambasciatori cordialmente e con ogni altro genere di riguardo, considerò non chi gli offriva la cittadinanza, bensì la persona alla quale era già stata offerta in passato; e così, quell’uomo dedito alla gloria, di cui non conosceva le alterne fortune e la misura, seguendo le orme di Ercole e di Bacco, e non fermandosi nemmeno laddove esse si erano arrestate, rivolse la propria attenzione al compagno della sua onorificenza, distogliendola da chi gliela stava offrendo, in quanto - quasi come se avesse il cielo nelle sua mani (quel cielo che abbracciava con la sua mente piena di illusioni) - veniva accomunato ad Ercole. [1.13.3] Ma cosa aveva in comune con lui questo giovane folle, che al posto della virtù possedeva una fortunata avventatezza? Ercole non vinse niente per sé: attraversò il mondo intero, non desiderando, ma valutando cosa vincere, nemico dei malvagi, protettore dei buoni, pacificatore della terra e del mare. Costui invece, fin dalla giovinezza, fu un predone, un saccheggiatore di popoli, una rovina tanto per i nemici quanto per gli amici, al punto da reputare un sommo bene l'essere il terrore di tutti i mortali, dimenticando che non sono temuti soltanto gli animali più feroci, ma anche quelli più codardi, a causa del loro veleno mortale. 

14

[1.14.1] Adesso ritorniamo al tema proposto. Se qualcuno offre un beneficio ad una persona qualsiasi, esso non risulta gradito a nessuno. Nessuno, infatti, si ritiene ospite di un oste o di un locandiere, così come nessuno si ritiene commensale di chi offre un banchetto pubblico, in occasione del quale si può dire: “cosa mi ha offerto? Di certo mi ha dato la stessa cosa che ha dato a quell’altro che conosce a stento, e a quell’altro ancora, che per giunta gli è ostile ed è un uomo dai costumi turpissimi. Per caso, mi ha ritenuto degno di qualcosa? Si è solo comportato seguendo la sua inclinazione malata!”. Se vuoi che un beneficio sia gradito, fa’ che sia raro. Chiunque è disposto a sentirsi debitore . [1.14.2] Nessuno però interpreti queste mie considerazioni al punto da credere che io stia riconducendo dentro il suo recinto la generosità o che ne stia frenando il cammino tirando troppo le briglie. Al contrario, la generosità esca all’aperto quanto vuole; ma cammini! Non vada girovagando a caso! È dunque lecito effettuare elargizioni pubbliche, ma in modo tale che chiunque, anche se ha ricevuto assieme a molti altri, non creda di essere uno fra i tanti. [1.14.3] Per tutti ci sia un qualche segno particolare di familiarità che permetta di coltivare la speranza di essere stati ammessi nella cerchia più ristretta. Ognuno dica: “ho ricevuto la stessa cosa che ha ricevuto quell’altro, ma spontaneamente. Ho ricevuto la stessa cosa che ha ricevuto quell’altro, ma io l’ho ottenuta in un lasso di tempo più breve, mentre quell’altro ha dovuto aspettare a lungo prima di meritarsela. Ci sono altri che hanno la stessa cosa che ho io, ma chi gliela ha offerta non gliela ha data con le stesse parole, non con la stessa affabilità. Quell’altro ha ricevuto il dono dopo averlo richiesto, io non lo avevo chiesto. Quell’altro ha ricevuto, ma gli sarebbe venuto più facile contraccambiare, ma la sua vecchiaia e il fatto di essere privo di figli offrivano grandi garanzie. A me ha dato di più, sebbene abbia dato la stessa cosa che ha dato ad altri, poiché ha dato senza sperare di ottenerne qualcosa in cambio”. [1.14.4] Come la prostituta si divide fra molti clienti, facendo in modo di lasciare a ciascuno una qualche impressione del suo affetto esclusivo, così chi vuole che i suoi benefici siano graditi, escogiti il modo per obbligare molte persone e, al contempo, far sì che ognuna di esse ottenga qualcosa grazie alla quale si senta preferita rispetto alle altre.

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[1.15.1] In realtà io non impongo indugi ai benefici: perché quanto più grandi e più numerosi essi saranno, tanto maggiore sarà la lode che recheranno. Purché ci sia un criterio; infatti non possono essere cari a nessuno se dati a caso e in maniera sconsiderata. [1.15.2] Per la qual cosa, se qualcuno pensa che noi, quando diamo questi precetti, richiudiamo la generosità all’interno del suo recinto e apriamo per lei un campo meno vasto, di certo ha ascoltato inutilmente le nostre raccomandazioni. Infatti quale virtù veneriamo di più? A vantaggio di quale virtù usiamo di più i nostri stimoli? A chi si confà questa esortazione se non a noi che vogliamo rafforzare la compattezza sociale del genere umano? [1.15.3] Ma come? Poiché nessun impeto dell’animo, anche se incomincia da una giusta intenzione, è virtuoso, a meno che il senso della moderazione non l’abbia trasformato in virtù, vieto che la generosità si trasformi in prodigalità. Un beneficio si riceve con piacere e per giunta con le mani rivolte verso il cielo, quando è la ragione a farlo pervenire a chi è degno e non dove la sorte o un moto irrazionale lo trasporta; un beneficio di questo tipo piace ostentarlo ed ascriverlo a se stessi. [1.15.4] Tu chiami benefici quelli dei quali ti vergogni di far conoscere il nome dell’autore? Ma quei benefici, quanto più sono graditi e quanto più penetrano nel profondo dell’animo destinati a rimanervi per sempre, quando ti rendono felice mentre pensi più a chi te li ha dati che a ciò che hai ricevuto? [1.15.5] Crispo Passieno soleva dire di preferire di alcuni il giudizio piuttosto che il beneficio, di altri, invece, il beneficio piuttosto che il giudizio, e aggiungeva degli esempi. “Preferisco,” diceva, “ il giudizio del divo Augusto, mentre di Claudio preferisco il beneficio.” In realtà io ritengo che non si debba aspirare al beneficio di nessuna persona il cui giudizio non vale nulla. [1.15.6] E quindi? Non si sarebbe dovuto accettare quel che era dato da Claudio? Si doveva, ma come se fosse stato dato dalla fortuna, della quale sarebbe meglio sapere che può all’improvviso diventare avversa. Perché scindiamo queste cose che sono mescolate tra di loro? Non è un beneficio quello a cui manca la sua miglior parte, ovvero l’esser stato dato con discernimento: altrimenti una grande quantità di denaro, se non è stata donata con criterio e nemmeno con una retta disposizione d’animo, è più un tesoro che un beneficio. E invece sono molte le cose che è necessario accettare senza però il bisogno di sentirsi in debito.

1 commento:

  1. Bellissimo progetto complimenti. Mi commuovo sempre di fronte a tanto coraggio didattico, questo professore è un caso raro, se non unico, nel nostro sistema scolastico. Complimenti a tutti!
    Per Seneca, fantastico come sempre. A volte lo trovo un po' contraddittorio nel portare gli esempi pratici delle sue teorie. E' come se mettesse in luce da solo i limiti del suo teorizzare.
    Grazie per la traduzione

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